Pubblichiamo volentieri l’articolo di Pierangelo Sequeri apparso su Avvenire del 12-03-2010
Teniamo ferma la differenza tra il bene e il male
Nell’Europa, civiltà cristiana di lungo corso, circola con tutta evidenza un virus post-cristiano. Si moltiplicano, davanti ai nostri occhi allibiti, i sintomi di una rappresentazione perfettamente anaffettiva del male. Per giocare, per vincere la noia, per fare esperienza, per essere se stessi: senza inutili ipocrisie, senza falsi moralismi. È una vera e propria modificazione culturale della specie. Non è rassegnazione alla inevitabile debolezza umana, pur così pronta all’indulgenza con se stessa. È proprio assuefazione. Ecco il punto.
L’odierna assuefazione al peccato mira a disinnescarne il sentimento, non solo l’idea e la volontà. Più radicalmente, ne inibisce la percezione. ‘Che male c’è?’. A poco a poco, svuota il male della sua natura maligna, incomincia a riguardarlo come una semplice differenza di gusti estetici, di preferenze libidiche, di priorità esistenziali, di strategie di realizzazione. Insomma, alla fine di questo metabolismo dell’assuefazione te lo puoi ritrovare anche come una risorsa: del successo, dell’astuzia, del potere. Una volta insediato fra le pieghe della scelta individuale, e in grado di esibire perfetta naturalezza (ci vuole esercizio, naturalmente: ma ci sono agenzie, per questo), il peccato è perfettamente riciclato (proprio come il denaro della droga). Può incominciare ad apparire – con altro nome, ma non necessariamente – ingrediente necessario di un’esperienza completa della vita, o addirittura un tratto personale di stile.
L’assuefazione al male e la perdita del senso del peccato sono perfettamente solidali. La diffusione di questa combinazione non intacca più semplicemente la sfera della moralità dei comportamenti individuali. Lambisce pericolosamente i processi di socializzazione, ossia i dispositivi dell’umana trasmissione dei modelli e degli orientamenti di vita. Insidia l’interpretazione del diritto da parte delle istituzioni e della pubblica opinione. Mortifica e toglie la parola alla coscienza intenzionata a onorare la differenza di una vita degna. Quella che è intenzionata a tener ferma la differenza del bene e del male, e a riconoscere lealmente la gravità personale e l’effetto di corruzione che vengono a noi tutti dal peccato che si consuma nel cuore: anche quello che non vediamo, che non alza (al momento) la mano su nessuno, che tradisce i propri impegni e i propri simili anche quando non è stato (ancora) scoperto.
Papa Benedetto XVI ha insistito ieri giustamente, sulla parola decisiva che deve essere pronunciata a riguardo di questa mutazione collettiva della coscienza del male. L’autentica vitalità dell’esperienza di Dio – solo quella – sbarra la strada a questo metabolismo che rende il peccato irriconoscibile, inconfessabile, imperdonabile. Dio sa come spiegare al cuore le cose. Dio ha la passione necessaria, e le corde giuste da toccare, per il riscatto dell’uomo dall’istupidimento che precede il diluvio. Dio ha l’autorevolezza necessaria per pronunciare con sovrana libertà la parola che nessuno vuole più ascoltare: l’uomo è capace di autentica cattiveria, anche senza nessuna scusa. Dio conserva il senso del perdono, anche se noi perdiamo il senso del peccato. Le nuove generazioni che moltiplicano pianti isterici per piccole eccitazioni andate a male perdono il dono caldo delle lacrime per le enormità di affetti sprecati e calpestati: per i quali nessuno espia. Il Papa invita i sacerdoti a considerare sacrosanto il ‘luogo’ e il ‘gesto’ della confessione del peccato. E li incoraggia a offrirsi come segno di un incontro con Dio che dissolve l’incantamento dell’assuefazione al male. Uno stile di vita controcorrente, che batte sul tempo l’onda anomala che travolge i cuccioli ignari. Un uomo che non ha fegato per la confessione del bene e del male, con amore e lacrime, che uomo è?