Perché il male? Se Dio è buono e ama i suoi figli, perché permette che essi soffrano? A queste domande tanto grandi non è possibile trovare in questa vita una risposta definitiva. Ci si può tuttavia avvicinare, invertendo la prospettiva e domandandoci: perché il bene?
“Dio vide che era cosa buona”
Il primo capitolo della Genesi, nel suo racconto simbolico della creazione, ci dona uno sguardo autentico sulla realtà, che è lo sguardo di Dio: “Dio vide che era cosa buona” (Gn 1). Egli guarda alle cose create e vi vede un grande bene. Possiamo dunque affermare che nello scheletro stesso della natura sta inciso un gene di bontà. Tutto è stato creato buono, tutto esiste per generare, perché ogni cosa proviene da Dio: “Tutto è stato fatto per mezzo di lui, e senza di lui nulla è stato fatto di ciò che esiste” (Gv 1, 3). Anche l’uomo, che è parte della creazione stessa, ne possiede la medesima anima luminosa. Eppure, il male è reale. Ogni giorno ne percepiamo il peso, anzi lo facciamo divenire il setaccio attraverso il quale vagliare ogni singola azione. Così, ogni bicchiere ci pare mezzo vuoto e sotto la luce del sole pensiamo già che prima o poi dovrà arrivare la tempesta; durante il lavoro aneliamo al riposo e una volta sotto le coperte poniamo mente al giorno che verrà, con le sue abituali e gravose occupazioni; all’alba amiamo con tutto il cuore la nostra originalità e al tramonto la disprezziamo, giudicandola motivo di solitudine e lontananza; cerchiamo e allontaniamo la stessa persona nello stretto giro di qualche ora, dimenticando per quale motivo abbiamo deciso di stare al suo fianco e consumarci per lei.
La fragilità come occasione
Il male ci schiaccia quando crediamo che sia a fondamento della nostra esistenza. Se riteniamo di dover raddrizzare un tronco nato storto, allora ogni tentativo di conversione sembrerà un atto violento contro la nostra sghemba identità originaria. Ma se crediamo fermamente che quel medesimo albero è nato in un giardino fertile, e il suo seme è stato custodito fin dal primo germe sotto il suolo, allora esso crescerà florido e ogni gesto che ne accompagnerà la crescita, riposizionandolo sul suo asse, profumerà di vita e non di distruzione. Gesù ci ha testimoniato questo con terribile chiarezza, narrandoci il giudizio universale (Mt 23, 31-46): non è salvo chi semplicemente evita di compiere il male, ma colui che compie il bene. Non possiamo vivere con la paura del peccato, ma con l’entusiasmo dell’amore, perché agli occhi di Dio noi abbiamo un valore per quanto siamo, non per quanto non siamo. Visto con gli occhi di Dio, il male e il suo proliferarsi non sono più così spaventosi. Anzi, ogni fragilità (fisica, morale e spirituale) diventa occasione di rinascita e di salvezza. Per radicare la nostra esistenza è necessario affondare nel fango del suolo: lì troviamo la forza vitale, il nutrimento, l’acqua di sorgente, lì si profonde tutto ciò che sostiene l’intera pianta. Solo così si potrà rinvigorire il tronco, diramare la fronda, raccogliere con tutte le foglie la luce del cielo.
Cosa fare ora?
Prendiamoci un impegno concreto: parliamo tra noi della Resurrezione. Facciamone memoria: la nostra fede non termina con la morte di Gesù in croce, ma prosegue oltre la soglia del sepolcro vuoto! Tutte le volte che siamo nel peccato e nel dolore ricordiamoci che Lui ha già vinto la morte per noi. Allora le esperienze quotidiane di male non saranno più una tenebra impenetrabile e irriducibile, ma un’ombra fugace in una vita di luce.
Gabriele
FORGIVING FOR JOY | 12. La fatica, il dolore, il male… hanno un senso? | G&R